Cesare Beccaria - La natura dei delitti e il vero fine delle pene


Immagine Cesare Beccaria
1) Introduzione
2) Lettura
3) Guida alla lettura
4) Guida alla Comprensione

Introduzione


Nel testo estratto dal capolavoro "Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria, edito per l'ultima volta dall'autore a Livorno nel 1766, troviamo importanti riflessioni sulla giustizia penale. Beccaria stabilisce che la misura di un crimine dovrebbe essere valutata in base al danno arrecato alla comunità. Da questa prospettiva, egli afferma che solo le azioni dannose per la società dovrebbero essere punite, non le sole intenzioni. Inoltre, sostiene che la severità di un reato non dovrebbe essere influenzata dallo status sociale della vittima e che gli atti peccaminosi contro Dio non dovrebbero rientrare nella categoria dei crimini.

Dopo queste premesse, Beccaria identifica tre categorie di crimini e pone alcune questioni fondamentali che verranno esplorate nei capitoli successivi: quali dovrebbero essere le pene adeguate per questi crimini? È la pena di morte una misura utile e necessaria? È giustificabile l'uso della tortura? Qual è il modo più efficace per prevenire i crimini?

Rispondendo alla prima di queste domande, Beccaria afferma che lo scopo delle pene non dovrebbe essere quello di infliggere sofferenza o di annullare un crimine già commesso. Piuttosto, le sanzioni dovrebbero mirare a prevenire la recidiva da parte del trasgressore e a scoraggiare altri dall'imitare tale comportamento. Le pene, quindi, dovrebbero essere proporzionate alla gravità del crimine e servire come deterrente efficace, evitando di causare sofferenze inutili al condannato. Beccaria anticipa che affronterà l'argomento della pena di morte nel paragrafo XXVII, dove sosterrà che se una pena è certa e infallibile, non c'è bisogno che sia anche crudele.


Lettura


Non solamente è interesse comune che non si commettano delitti, ma che siano più rari a proporzione del male che arrecano alla società. Dunque più forti debbono essere gli ostacoli che risospingono gli uomini dai delitti a misura che sono contrari al ben pubblico, ed a misura delle spinte che gli portano ai delitti. Dunque vi deve essere una proporzione fra i delitti e le pene. [...]

Quella forza simile alla gravità, che ci spinge al nostro ben essere, non si trattiene che a misura degli ostacoli che gli sono opposti. Gli effetti di questa forza sono la confusa serie delle azioni umane: se queste si urtano scambievolmente e si offendono, le pene, che io chiamerei ostacoli politici, ne impediscono il cattivo effetto senza distruggere la causa impellente, che è la sensibilità medesima inseparabile dall'uomo, e il legislatore fa come l'abile architetto di cui l'officio è di opporsi alle direzioni rovinose della gravità e di far conspirare quelle che contribuiscono alla forza dell'edificio.

Data la necessità della riunione degli uomini, dati i patti, che necessariamente risultano dalla opposizione medesima degl'interessi privati, trovasi una scala di disordini, dei quali il primo grado consiste in quelli che distruggono immediatamente la società, e l'ultimo nella minima ingiustizia possibile fatta ai privati membri di essa. Tra questi estremi sono comprese tutte le azioni opposte al ben pubblico, che chiamansi delitti, e tutte vanno, per gradi insensibili, decrescendo dal più sublime al più infimo. Se la geometria fosse adattabile alle infinite ed oscure combinazioni delle azioni umane, vi dovrebbe essere una scala corrispondente di pene, che discendesse dalla più forte alla più debole: ma basterà al saggio legislatore di segnarne i punti principali, senza turbar l'ordine, non decretando ai delitti del primo grado le pene dell'ultimo. [...]

Le precedenti riflessioni mi danno il diritto di asserire che l'unica e vera misura dei delitti è il danno fatto alla nazione, e però errarono coloro che credettero vera misura dei delitti l'intenzione di chi gli commette. Questa dipende dalla impressione attuale degli oggetti e dalla precedente disposizione della mente: esse variano in tutti gli uomini e in ciascun uomo, colla velocissima successione delle idee, delle passioni e delle circostanze. Sarebbe dunque necessario formare non solo un codice particolare per ciascun cittadino, ma una nuova legge ad ogni delitto. Qualche volta gli uomini colla migliore intenzione fanno il maggior male alla società; e alcune altre volte colla più cattiva volontà ne fanno il maggior bene.

Altri misurano i delitti più dalla dignità della persona offesa che dalla loro importanza riguardo al ben pubblico. Se questa fosse la vera misura dei delitti, una irriverenza all'Essere degli esseri dovrebbe più atrocemente punirsi che l'assassinio d'un monarca, la superiorità della natura essendo un infinito compenso alla differenza dell'offesa.

Finalmente alcuni pensarono che la gravezza del peccato entrasse nella misura dei delitti. La fallacia di questa opinione risalterà agli occhi d'un indifferente esaminatore dei veri rapporti tra uomini e uomini, e tra uomini e Dio.

I primi sono rapporti di uguaglianza. La sola necessità ha fatto nascere dall'urto delle passioni e dalle opposizioni degl'interessi l'idea della utilità comune, che è la base della giustizia umana; i secondi sono rapporti di dipendenza da un Essere perfetto e creatore, che si è riserbato a sé solo il diritto di essere legislatore e giudice nel medesimo tempo, perché egli solo può esserlo senza inconveniente. Se ha stabilito pene eterne a chi disobbedisce alla sua onnipotenza, qual sarà l'insetto che oserà supplire alla divina giustizia, che vorrà vendicare l'Essere che basta a se stesso, che non può ricevere dagli oggetti impressione alcuna di piacere o di dolore, e che solo tra tutti gli esseri agisce senza reazione? [...]

Abbiamo veduto qual sia la vera misura dei delitti, cioè il danno della società. Questa è una di quelle palpabili verità che, quantunque non abbian bisogno né di quadranti, né di telescopi per essere scoperte, ma sieno alla portata di ciascun mediocre intelletto, pure per una maravigliosa combinazione di circostanze non sono con decisa sicurezza conosciute che da alcuni pochi pensatori, uomini d'ogni nazione e d'ogni secolo. [...]

Alcuni delitti distruggono immediatamente la società, o chi la rappresenta; alcuni offendono la privata sicurezza di un cittadino nella vita, nei beni, o nell'onore; alcuni altri sono azioni contrarie a ciò che ciascuno è obbligato dalle leggi di fare, o non fare, in vista del ben pubblico.

I primi, che sono i massimi delitti, perché più dannosi, son quelli che chiamansi di lesa maestà. La sola tirannia e l'ignoranza, che confondono i vocaboli e le idee più chiare, possono dar questo nome, e per conseguenza la massima pena, a' delitti di differente natura, e rendere così gli uomini, come in mille altre occasioni, vittime di una parola. Ogni delitto, benché privato, offende la società, ma ogni delitto non ne tenta la immediata distruzione. Le azioni morali, come le fisiche, hanno la loro sfera limitata di attività e sono diversamente circonscritte, come tutti i movimenti di natura, dal tempo e dallo spazio; e però la sola cavillosa interpetrazione, che è per l'ordinario la filosofia della schiavitù, può confondere ciò che dall'eterna verità fu con immutabili rapporti distinto.

Dopo questi seguono i delitti contrari alla sicurezza di ciascun particolare. Essendo questo il fine primario di ogni legittima associazione, non può non assegnarsi alla violazione del dritto di sicurezza acquistato da ogni cittadino alcuna delle pene più considerabili stabilita dalle leggi.
L'opinione che ciaschedun cittadino deve avere di poter fare tutto ciò che non è contrario alle leggi senza temerne altro inconveniente che quello che può nascere dall'azione medesima, questo è il dogma politico che dovrebb'essere dai popoli creduto e dai supremi magistrati colla incorrotta custodia delle leggi predicato; sacro dogma, senza di cui non vi può essere legittima società, giusta ricompensa del sacrificio fatto dagli uomini di quell'azione universale su tutte le cose che è comune ad ogni essere sensibile, e limitata soltanto dalle proprie forze. [...]

Finalmente, tra i delitti della terza specie sono particolarmente quelli che turbano la pubblica tranquillità e la quiete de' cittadini, come gli strepiti e i bagordi nelle pubbliche vie destinate al commercio ed al passeggio de' cittadini, come i fanatici sermoni, che eccitano le facili passioni della curiosa moltitudine, le quali prendono forza dalla frequenza degli uditori e più dall'oscuro e misterioso entusiasmo che dalla chiara e tranquilla ragione, la quale mai non opera sopra una gran massa d'uomini. [...]

Ma quali saranno le pene convenienti a questi delitti? La morte è ella una pena veramente utile e necessaria per la sicurezza e pel buon ordine della società? La tortura e i tormenti sono eglino giusti, e ottengon eglino il fine che si propongono le leggi? Qual è la miglior maniera di prevenire i delitti? Le medesime pene sono elleno egualmente utili in tutt'i tempi? Qual influenza hanno esse su i costumi? Questi problemi meritano di essere sciolti con quella precisione geometrica a cui la nebbia dei sofismi, la seduttrice eloquenza ed il timido dubbio non posson resistere. [...]

Dalla semplice considerazione delle verità fin qui esposte egli è evidente che il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso. Può egli in un corpo politico, che, ben lungi di agire per passione, è il tranquillo moderatore delle passioni particolari, può egli albergare questa inutile crudeltà stromento del furore e del fanatismo o dei deboli tiranni? Le strida di un infelice richiamano forse dal tempo che non ritorna le azioni già consumate?

Il fine dunque non è altro che d'impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque e quel metodo d'infliggerle deve esser prescelto che, serbata la proporzione, farà una impressione più efficace e più durevole sugli animi degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo.


Guida alla lettura


1) Quale è il solo criterio che bisogna usare per stabilire la natura dei delitti?
Il solo criterio che bisogna usare per stabilire la natura dei delitti, secondo Beccaria nel testo "Dei delitti e delle pene", è il danno fatto alla nazione. Beccaria afferma chiaramente che la vera e unica misura di un delitto è il danno arrecato alla società. Egli respinge quindi l'idea che la misura dei delitti possa essere l'intenzione di chi li commette o la dignità della persona offesa, sottolineando invece l'importanza degli effetti concreti e dannosi che le azioni hanno sulla collettività.

2) Elenca i tipi possibili di delitti, dal più grave al meno grave, e spiega in che cosa consistono.
Cesare Beccaria classifica i delitti in tre tipologie principali, ordinati dal più grave al meno grave, basandosi sulla loro gravità e impatto sulla società:

Delitti che distruggono immediatamente la società o chi la rappresenta: Questi sono considerati i delitti di massima gravità. Beccaria li chiama "delitti di lesa maestà", usando un termine che all'epoca aveva una connotazione molto ampia e poteva essere applicato a una varietà di crimini. Questi delitti sono dannosi al punto da tentare l'immediata distruzione della società stessa o di attaccare direttamente chi la rappresenta (come potrebbe essere un monarca o un governo).
Delitti contro la sicurezza personale dei cittadini: Questi delitti offrono alla privata sicurezza di un cittadino relativamente alla vita, ai beni, o all'onore. Includono azioni che violano i diritti individuali garantiti dalle leggi, che ogni cittadino è aspettato di rispettare per il bene comune e la sicurezza reciproca.
Delitti che turbano la pubblica tranquillità e la quiete dei cittadini: Questi delitti includono azioni che disturbano l'ordine pubblico, come ad esempio strepiti e bagordi in luoghi pubblici, sermoni fanatici che incitano la moltitudine, o qualsiasi altro comportamento che minaccia la tranquillità collettiva e l'ordine sociale. Beccaria pone una particolare enfasi sulla maniera in cui queste azioni si propagano e sull'influenza che hanno sulle masse, sottolineando l'importanza di mantenere la calma e la razionalità nella società.

Queste categorie riflettono la visione di Beccaria secondo cui il fine principale delle leggi e delle pene è la protezione della società e la prevenzione dei delitti, piuttosto che la punizione crudele o la vendetta contro gli individui.


Guida alla Comprensione


1) Che cosa significa che le pene devono impedire che l'interesse particolare spinga gli uomini a compiere delitti, senza per questo distruggere la loro sensibilità?
Nel testo di Cesare Beccaria, "Dei delitti e delle pene", il concetto che le pene debbano impedire che l'interesse particolare spinga gli uomini a compiere delitti senza però distruggere la loro sensibilità si rifà all'idea che la legge debba creare ostacoli sufficienti per dissuadere i crimini, ma al contempo mantenere un rispetto fondamentale per l'umanità del reo.

Beccaria sostiene che ogni individuo è spinto verso il proprio benessere da una "forza simile alla gravità", che può essere controllata solo attraverso ostacoli adeguati, che lui definisce "ostacoli politici". Questi ostacoli dovrebbero prevenire il danno sociale derivante dalle azioni negative senza eliminare la causa di quelle azioni, ovvero la sensibilità umana intrinseca. L'obiettivo del legislatore è quello di guidare le azioni individuali in modo che contribuiscano al bene dell'edificio sociale, piuttosto che comprometterne la struttura.

Il fine delle pene, quindi, non è di "tormentare un essere sensibile" o di "disfare un delitto già commesso", ma di prevenire ulteriori danni alla società e dissuadere sia il colpevole sia altri potenziali trasgressori dal commettere reati simili. In pratica, Beccaria argomenta per pene che siano proporzionate al delitto e sufficientemente deterrenti, ma che evitino inutili sofferenze fisiche o morali per il reo, rispettando la sua dignità e sensibilità umana.

2) In che modo Beccaria usa la metafora della scala per indicare il criterio per misurare i delitti?
Nel testo, Cesare Beccaria utilizza la metafora della scala per illustrare il criterio per misurare i delitti in relazione alla gravità del danno causato alla società. Egli sostiene che esiste una "scala di disordini", dove i delitti sono distribuiti su vari livelli a seconda della loro gravità e del loro impatto sulla società. Beccaria immagina idealmente che se la geometria potesse essere adattata alle "infinite ed oscure combinazioni delle azioni umane", esisterebbe una scala precisa di pene corrispondente a ciascun grado di delitto, che dovrebbe discendere dalla più forte alla più debole.

Il legislatore, che Beccaria paragona a un "abile architetto", ha il compito di stabilire i punti principali di questa scala, senza turbar l’ordine sociale, evitando di attribuire ai delitti minori le pene destinate ai delitti più gravi. In questo modo, la metafora della scala aiuta a visualizzare la necessità di una precisa corrispondenza tra la gravità del delitto e la severità della pena, sottolineando l'importanza della proporzionalità e dell'equità nella giustizia penale.

3) Beccaria segue Montesquieu nel sottolineare che il peccato non è un delitto: che cosa significa?
Nel testo di Cesare Beccaria che hai fornito, il concetto che il "peccato non è un delitto" è strettamente collegato alla differenziazione tra le azioni che danneggiano la società (delitti) e quelle che riguardano la sfera personale o spirituale (peccati). Beccaria, seguendo il pensiero illuminista di Montesquieu, sostiene che i delitti dovrebbero essere misurati e puniti in base al danno reale che infliggono alla società, non in base a considerazioni morali o religiose.

Il peccato, secondo questa prospettiva, è una trasgressione contro le leggi divine o i comandamenti religiosi, che non necessariamente coincide con un danno alla società civile. Ad esempio, Beccaria critica la misurazione dei delitti basata sulla gravità del peccato, facendo notare come una irriverenza verso l'Essere supremo (un peccato) non dovrebbe essere punita più severamente di azioni che causano un danno tangibile alla società, come l'assassinio di un monarca.

Quindi, quando Beccaria afferma che il peccato non è un delitto, intende sottolineare che le leggi civili dovrebbero concentrarsi sul mantenimento dell'ordine pubblico e sulla protezione dei diritti e della sicurezza dei cittadini, piuttosto che intervenire in questioni di natura morale o religiosa che non impattano direttamente sulla società in termini di danni materiali o di pericolo. Questa distinzione rafforza il principio illuminista che la legge dovrebbe basarsi su ragione e utilità pubblica piuttosto che su dottrine religiose o personali.

Fonti: Zanichetti, libri scolastici superiori

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